di Carlo Bastasin
Il ritorno in auge della politica sembra inarrestabile e in questa prospettiva la settimana passata rimarrà memorabile per i Governi europei. Il premier britannico Gordon Brown, un cadavere politico fino a dieci giorni fa, è diventato nella pubblicistica anglosassone “il salvatore dell’universo”. Nicolas Sarkozy ha rivelato risorse di leadership tramutando in un successo gli iniziali fallimenti nel coordinamento europeo.
Il presidente francese e Silvio Berlusconi hanno superato il 60% dei consensi, un livello che il premier italiano ha definito «quasi imbarazzante» in democrazia. Angela Merkel ha ottenuto, come accadeva ai sovrani, sia la gratitudine dei banchieri tedeschi sia la loro umiliazione e quindi il consenso nell’opinione pubblica.
Nella facciata rassicurante dei Governi che fanno barriera alla crisi c’è tuttavia una crepa. In tutte le risposte pubbliche c’è stata una notevole dimostrazione di leadership, ma un’altrettanto notevole assenza di confronto democratico. I Parlamenti sono stati irrilevanti, il dibattito su cause e rimedi è rimasto schiacciato sotto la retorica millenarista della fine del mondo. L’opinione pubblica non sembra però avere dubbi, non c’è preoccupazione per la sbrigatività delle procedure parlamentari. La paura del crollo epocale del sistema ha offerto una base di legittimazione irrazionale in cui ciò che disperde la paura non è frutto del faticoso e fallibile negoziato umano, ma di una necessità storica. Così nei sondaggi la leadership è premiata a costo di sacrificare, quasi di buon grado, la democrazia.
E di sacrificio di democrazia si è certamente trattato. Negli Stati Uniti il Congresso, che aveva bocciato il primo piano Paulson, è stato costretto a rivotarlo e a rinnegare se stesso. «Non c’è alternativa» aveva spiegato Bush. Invece l’alternativa c’era: solo una settimana dopo Paulson aveva dovuto ritirare il piano e sostituirlo con uno migliore e copiato dagli europei. Più di chiunque altro era stato John McCain a esemplificare l’inconciliabilità tra crisi e democrazia, proponendo di sospendere la campagna presidenziale americana finché il crollo di Wall Street non fosse finito.
In Germania una procedura di approvazione parlamentare che sarebbe durata quattro mesi è stata sbrigata in una settimana con votazioni che al Bundesrat sono state prive anche di un solo voto di dissenso. In Germania e Francia la dialettica politica si è spostata così fuori dal Parlamento e inevitabilmente ha assunto connotati populistici; si discute non del miglior modello di salvataggio dell’economia, ma di quali punizioni infliggere ai banchieri per placare l’irritazione popolare. In Italia la denuncia dell’opposizione del rischio di regime è parsa rituale, le proteste sull’assenza di un dibattito parlamentare sono sembrate d’intralcio anche perché il dibattito mancato sui contenuti è stato sovrastato dalle retoriche sulla fine del capitalismo. Perfino la voce degli economisti, titolati a discutere le diagnosi, è ripudiata.
Sappiamo tutti quale sia la giustificazione: quando una casa brucia, l’incendio va spento. Le analogie con le guerre e le catastrofi naturali sono giunte spontanee: l’emergenza era troppo grave per perdere tempo a discutere di alternative. Gli interventi inoltre erano «esorbitanti» anche per la loro dimensione: estranei alle orbite normali dei bilanci parlamentari. Le risorse mobilitate dai Governi dovevano intimidire i mercati, facevano capo ai contribuenti-elettori ma hanno finito per rafforzare il ruolo pubblico dei capi di governo, in un collasso dello Stato dentro al potere esecutivo.
Ma possiamo davvero permetterci di rinunciare a discutere nel merito quello che sta avvenendo? No per alcune ragioni:
1. Il principio delle decisioni d’autorità rischia di evolversi da metodo a sostanza della politica. Non sono in fondo le ricette che emergono dalla crisi - la statalizzazione delle banche, la protezione degli assetti proprietari dei campioni nazionali, la distribuzione di sussidi pubblici - una forma di concentrazione del potere, in una misura di cui non si aveva memoria da decenni? Ieri Sarkozy ha proposto la creazione di fondi sovrani nazionali, una soluzione molto meno accettabile di quella di Giulio Tremonti di un fondo “sovrano” europeo e che finirà per creare conflitti tra Paesi della Ue. «Ognuno torni davanti alla propria porta di casa» chiede il ministro delle Finanze tedesco e nel farlo rivela la contraddizione: nel momento in cui i Governi europei sentono la necessità di un coordinamento globale – una nuova Bretton Woods – riaffermano la logica della sovranità esclusiva, condannando al fallimento lo sforzo di governare la globalizzazione.
2. L’affermazione di leadership raccoglie molto consenso quando le cose - per capacità o per fortuna - vanno bene e gli eventi della scorsa settimana ne sono testimonianza, benché se la crisi sarà riassorbita i mercati e la politica torneranno a disciplinarsi vicendevolmente rendendo inutile l’esercizio di autorità. Ma che cosa succede se l’allentamento delle procedure democratiche coinciderà con fasi infelici della società? I prossimi due anni saranno di recessione economica, renderanno una moltitudine di imprese e individui dipendenti dall’aiuto dello Stato. In Paesi come l’Italia è prevedibile che il debito pubblico torni ad aumentare. Tornerà la pressione dei mercati che finanziano il debito e la tentazione di isolarsene d’autorità. La contrapposizione tra interessi nazionali e vincoli esterni si farà più grave.
3. Un problema della globalizzazione è di aver fallito in uno dei suoi aspetti più interessanti: l’espansione del benessere attraverso strumenti finanziari che consentivano anche a famiglie povere di diventare proprietarie della loro abitazione. Il problema della distribuzione del reddito – che presuppone meccanismi di decisione democratici a maggioranza – e l’obiettivo di una certa uguaglianza, sono decisivi nel garantire consenso all’apertura delle frontiere e d’ora in poi non potranno non essere affrontati da chi vuole discutere di mercati globali.
Una politica di concentrazione di potere nelle mani degli Esecutivi mal tollera il laborioso processo di condivisione delle decisioni: l’arbitrio si scontra con regole comuni. Ma poiché quasi tutti i problemi che ci affliggono – dalle crisi finanziarie alle condizioni dell’ambiente, dalla recessione agli sviluppi demografici – non sono governabili su scala nazionale, la retorica autocratica rischia di distanziarsi dalla soluzione dei problemi e il meccanismo dell’emergenza finisce inevitabilmente per diventare uno stato permanente, aggravando il problema democratico. Ora che si affronta il tema di riscrivere le regole globali dell’economia, i temi della democrazia e dell’integrazione politica non dovrebbero rimanere ai margini.
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